Rignano Garganico è il paese del vento per antonomasia. Spira in quasi tutti i giorni dell’anno, ora leggero, ora intermittente, ora forte e possente. Di solito viene dal Nord o da Ovest. Il volgo lo appella “scorciacrape”. E’ un vento secco che spezza la calura estiva costringendo ognuno, specie di sera, ad indossare la giacca o il soprabito anche quando di giorno c’è il solleone. D’inverno la situazione peggiora. Diventa pungente ed insopportabile.
Infatti, quando nevica, il vento si mette di traverso e si trasforma in una vera e propria barriera invalicabile. Solleva la neve a mulinello e l’ammucchia nei posti più impensati, rendendo così le strade intransitabili non solo per gli automobilisti, ma anche per i pedoni costretti ad avanzare carponi pur di non essere spazzati via e a trattenere il respiro, pur di non soffocare di fronte a tanta furia. Si tratta della bora, quella che viene dalla gelida Siberia. Qui si chiama “lu fuluppine”.
Si racconta che una volta due ragazzi di nome Franceschino e Tonino, dovendo ad ogni costo spostarsi dalla periferia (ove abitavano) al centro vitale del paese distante alcune centinaia di metri, pensarono bene di legarsi con funi piombate alle estremità da due grossi sassi. Lo stratagemma riuscì e permise loro di divertirsi un mondo con i compagni della piazza. Al ritorno però, dato il tempo più inclemente, ci pensarono i rispettivi genitori a farli rincasare, aiutati per l’occasione da forzuti parenti.
In paese, di sera, ci si fa luce con i tizzoni ardenti. Le lampadine tascabili fecero capolino solo negli anni ’50. La corrente elettrica, a quei tempi fornita da una rete debole e da una sola cabina accumulatrice posta sulla Ripa sino a qualche decennio fa, va e viene: basta una leggera folata di vento o qualche goccia di acqua ad interromperla. Cosicché le pubbliche strade servite o le poche abitazioni illuminate da una sola lampadina “a forfait”, restano per lungo tempo al buio. Il resto lo fa il coprifuoco. Siamo negli anni di guerra.
Di notte non si riesce a dormire, tormentati dal concerto tremendo diretto con molta disinvoltura dal maestro “Vento”: porte e finestre battenti, spifferi sonori, fischi, sibili e ululati provenienti da ogni dove. Fa da padrone il tiraggio del camino, dove il vento scende e risale a suo piacimento sommovendo al suo interno tutto il ferrame utile alla cottura (catena per la pentola, treppiede, graticola, ecc.).
Il lume a petrolio è spento da un pezzo. La stanza è illuminata a malapena dalla piccola lampada ad olio posta sul comò davanti all’immaginetta della Madonna di Cristo. La luce fioca, però, anziché tranquillizzare, materializza ombre sinistre: enormi pipistrelli, serpenti attorcigliati, animali con più teste, uomini incappucciati, streghe sgangherate ed altre strane figure. La fantasia di due fratellini, Leonardo e Vincenzo, sempre più si accende. Hanno tanta paura e, stretti stretti, si stringono nel loro angusto lettino. Al suon di questa musica infernale ed invernale i due ragazzi si addormentano. Il vento è uno spazzino scrupoloso che mantiene sempre pulita la vecchia Rignano. E ciò grazie alla sagacia dei suoi antichi abitatori che l’hanno costruita, pietra su pietra, a “misura di vento”, cioè seguendo l’orografia dei luoghi. I fabbricati sono disposti in forma ellittica attorno alla sommità della collina su cui si erge la piccola Cattedrale cinquecentesca, ossia la Chiesa Matrice intestata all’Assunta. Seguono il medesimo andamento le strade strette, a serpentina, che si incrociano di tanto in tanto con quelle di collegamento verticale, quasi sempre a scaloni e terminanti con degli affacci nelle diverse direzioni, ad eccezione del lato-nord sul Giro Esterno. Questi ultimi sono costituiti da “cavernosi archi che richiamano embrionali gallerie sotterranee”* E’ in questo groviglio di arterie, di vicoli e piazzette medievali che s’incunea il vento sempre pronto a svolgere a puntino il lavoro di pulizia.
Del vento di Rignano parla lo stesso don Cella in uno scritto,* ricordando il suo amico e maestro don Angelo Gentile: “Figlio di una terra dove dominano le pietre e il vento. Condizioni ambientali queste, servite per abilitare gli abitanti ad affrontare le difficoltà giornaliere. Lo stesso dialetto del paese, diverso da quello dei borghi viciniori, secondo don Angelo, risentiva delle condizioni ambientali. Quando c’è vento, la bora soprattutto, spiegava, l’aria fredda ti entra in bocca e ti gela anche l’alito; allora è necessario parlare a denti stretti con la bocca socchiusa. Ovvio che ne risente anche il dialetto. Ad esempio: la parola “vento”, mentre altrove è pronunciata “vènt”, dove la è aperta ti costringe ad aprire la bocca, a Rignano è “vint”, detta stringendo i denti e socchiudendo la bocca”.
I Rignanesi sono impastati di vento. Ovunque si trovino, quando s’imbattono in un evento atmosferico del genere, immancabilmente si accende in ognuno la memoria uditiva e tattile. Sembra loro di trovarsi in paese”
Tanto accade anche a don Cella, quando si sposta nelle zone alte del Madagascar e ode lo stormire della foresta o avverte in faccia il soffio impetuoso del libeccio nei giorni di tempesta. Qui il clima è più umido e caldo! Don Leonardo immagina di trovarsi nella sua terra natale; si sente felice di affrontare l’evento anche se lì la natura si esprime attraverso tifoni quasi sempre accompagnati da effetti disastrosi e apocalittici in termini di perdita di vite umane, di distruzione di abitazioni e di raccolto.
“Il vento è l’alito del Signore, bisogna accettare la sua volontà e pregare! A nessuno è permesso di scrutare il disegno divino!” E’ l’appello che il nostro sacerdote rivolge ai sopravvissuti di ogni catastrofe, spronandoli ad avere fede, ad iniziare con coraggio la via della ricostruzione mentre lui, da salesiano operoso qual è, da subito si prodiga attivamente per aiutare il prossimo.
Sempre in merito al vento c’è un racconto caro ai bambini del tempo in cui non ancora c’era la Televisione. In un paese di periferia, sperduto e sconosciuto come Rignano, i libri di narrativa erano scarsi o, meglio, merce rara riservata ai figli dei ricchi. Così, i genitori solevano raccontare storie vere o inventate per conciliare il sonno dei piccoli.
Si tratta della presunta storia di un dragone (‘ndravone) che si nascondeva in una impenetrabile “macchia” (bosco ceduo di querceti e lecceti). A raccontarla, non si sa per quante volte, ci pensa Tatone, il nonno. Nella sua casetta di campagna, è seduto assieme ai nipoti davanti al focolare ove perennemente arde il solito ceppo ben stagionato di quercia, talvolta di ciliegio e più raramente diulivo. Tra questi vi è anche il futuro “don” che in quel momento sta gustando assieme ai cugini una fetta di pane raffermo condita con un filo d’olio e poco sale. A quei tempi, tempi di dura crisi bellica e postbellica, si risparmia su tutto.
Il nonno comincia: “C’era una volta in paese un contadino di nome “Mechelucce”. Abitava assieme alla moglie “Catarinèlle” in un pian terreno al quartiere “Grotta”. Non avevano figli. Il monolocale però, oltre ai due coniugi, ospitava una giovane somara di nome Peppinèlle, a cui Mechelucce e Catarrinèlle erano molto affezionati. Era il regalo di nozze del padre di lei.
Le volevano molto bene perché il marito si lasciava portare in groppa al lavoro nei campi; mentre la moglie la utilizzava nei giorni di festa per spostarsi in paese e in campagna quando decideva di far visita a questa o quella famiglia di parenti ed amici.
“Mechelucce” era un brav’uomo ed infaticabile lavoratore di zappa. Il suo unico difetto era l’eccessiva credulità. Bastava che qualcuno gli dicesse: “Vole lu ciucce!” e lui ci credeva per davvero. Una mattina di prima estate, l’uomo si svegliò ben presto e disse alla moglie: “Oggi vado a Centopozzi a spietrare la terra”. Si trattava di un appezzamento di poche are, costituito dal fondo di una piccola dolina, contornata da una selva di querce e di lecci inframmezzata da affioramenti rocciosi e pietre di riporto.
La donna si alzò e aiutò l’uomo a mettere il basto all’asina; ad appendere una bisaccia col necessario approvvigionamento, tra cui un barilotto semipieno d’acqua appena attinta dalla cisterna. Allora, quasi tutti gli abitanti avevano una riserva di acqua piovana in casa. Quindi, il contadino portò fuori l’asino e, dopo averlo fatto accostare ad un pianerottolo, salì in groppa e si avviò verso la via di “fuso” (attuale strada provinciale per San Marco in Lamis). Ad un certo punto, deviò su un conosciuto sentiero e in poco tempo giunse a destinazione.
Qui dapprima scaricò la bisaccia con le provviste alimentari (pane e cipolla), poi gli attrezzi da lavoro (zappa, badile e piccone), poi l’indispensabile barilotto che sistemò sotto un fronzuto ed impenetrabile leccio al fine di trovare ancora fresco il suo contenuto al momento della bisogna. Quindi, tolse il basto e lasciò libero l’animale, mentre egli si mise subito al lavoro.
In giro si avvertiva un frastornante monotono concerto di grilli e di cicale, il cinguettio di passeri e di canarini, l’abbaiare lontano di qualche cane da caccia o di pastori, il fruscio di lucertole impaurite in cerca di sole, il verso stridente delle gazze ed altri rumori più o meno percettibili. E’ la natura dei luoghi!
L’atmosfera bucolica durò poco. Ad un tratto la terra sembrò tremare, lo stormire delle foglie si fece più intenso. L’aria si rese inquieta. Cominciò a spirare dapprima una leggera brezza, poi il vento. Tutto si confuse e il concerto da melodico si trasformò in una vera e propria baraonda. In mezzo a tanto frastuono si udiva un rumore cadenzato e alternato: “Ping, pong! Puffhete, pufftete! Bla bla!” e via discorrendo. Tanto fu avvertito anche da Mechelucce. L’uomo si fermò, tese l’orecchio e risentì chiaro chiaro lo strano rumore proveniente dalle “macchie” vicine.” Che sarà mai?” - s’interrogò. “C’è qualcuno?” - chiese con lo sguardo rivolto alle piante. Nessuno rispose, se non il bla bla e il ping pong di prima. La paura cominciò ad impossessarsi dell’uomo.
Da tempo si parlava in paese di draghi e dragoni che si aggiravano per le campagne, sputando fiamme in ogni dove. Anzi, taluni erano certi che gli ultimi incendi fossero stati causati da questo strano animale. Pare che anche le pecore mancanti al gregge di compar Nicola, fossero state ingoiate ad una ad una e forse tutte insieme dalla “mala bestia”. Qualcuno diceva di essersi imbattuto nel dragone che era alto tre metri, aveva cinque teste e una coda lunga più di cinque metri. Ad un tratto l’uomo trasecolò ed esclamò ad alta voce: “Si, si è il Dragone!”.
Poi, incurante del basto, salì di corsa in groppa a Peppinèlle ed in un baleno raggiunse il paese per chiedere aiuto. Andò persino in municipio. Il Sindaco, dopo aver appreso la notizia, seduta stante radunò le guardie, fece chiamare il banditore Nunziuccio e lo mandò in giro per il paese a dare l’allarme: “Armateve d’accette e runce, currite currite: a Centepuzze ce sta lu “’ndravone inte la macchije!”*
Si fecero avanti tanti volenterosi, armati sino ai denti di armi bianche e di forconi e in pochi attimi raggiunsero la piazza. Quindi, con a capo il sindaco Antonio e l’avanguardia di Mechelucce, il piccolo esercito uscì dal paese e si avviò impavido verso Centopozzi che venne raggiunto in poco più di un quarto di ora. Il vento continuava a spirare ad intermittenza. I rumori e le strane voci lamentate, a tratti, tornavano a farsi risentire. Il primo cittadino, allora, fece disporre la strana armata a semicerchio e a doppia fila davanti al posto da dove giungevano i rumori. Comandò, quindi, alle due guardie di andare sul posto ad esplorare. Questi, preso coraggio, in sintonia d’azione piombarono in un attimo sulla macchia incriminata. Con sommo stupore notarono il barilotto che, privo di sostegno e mosso dal vento, continuava a dondolare or dall’una or dall’altra parte, facendo battere sul legno l’acqua contenuta al suo interno col medesimo ritmo. Era questo tipo di sciabordio a generare lo strano rumore.
Le due guardie scoppiarono a ridere a crepapelle: “Mechelu’, Mechelu’, vieni a vedere! E’ il tuo barilotto a far rumore!” La comitiva, a questo punto, avvertendo con una certa amarezza di essere stata burlata non ad opera dell’uomo ma di un elemento cieco come il vento, fu costretta a ritornare in paese con le pive nel sacco”.
Da allora in poi in paese si raccomanda spesso a chi va: “Stai attento agli scherzi del vento!”.
Bibliografia
*P. Doroteo Forte, Rignano Garganico, Foggia, 1984, p.19.
*Armatevi di accette e roncole, correte correte: a Centopozzi c’è il Dragone nel bosco!
N.B. Racconto tratto dal v. Don Leonardo Cella / Dal Gargano al mondo salesiano, e-book, Roma, Maritato Group, 2012, pp. 210